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elaleph.com foros de discusión literaria
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Cultor Miembro Senior

Registrado: 25 Mar 2006 Mensajes: 2110
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Publicado: Mie Jun 30, 2010 12:56 Asunto: |
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"Si tratta sempre di accettare un orizzonte."
De Dialoghi con Leucò.
L' ISOLA
Tutti sanno che Odisseo naufrago, sulla via del ritorno,
restò nove anni sull’isola Ogigia, dove non c’era che Calipso,
antica dea.
Calipso. Odisseo, non c’è nulla di molto diverso.
Anche tu come me vuoi fermarti su un’isola.
Hai veduto e patito ogni cosa.
Io forse un giorno ti dirò quel che ho patito.
Tutti e due siamo stanchi di un grosso destino.
Perché continuare ?
Che t’importa che l’isola non sia quella che cercavi?
Qui mai nulla succede.
C’è un po’ di terra e un orizzonte.
Qui puoi vivere sempre.
Odisseo. Una vita immortale.
Calipso. Immortale è chi accetta l’istante.
Chi non conosce più un domani. Ma se ti piace la parola,dilla. Tu sei davvero a questo punto?
Odisseo. Io credevo immortale chi non teme la morte.
Calipso. Chi non spera di vivere. Certo, quasi lo sei. Hai patito molto anche tu. Ma perché questa smania di tornartene a casa? Sei ancora inquieto? Perché i discorsi che vai facendo tra gli scogli?
Odisseo. Se domani io partissi tu saresti felice?
Calipso. Vuoi saper troppo, caro. Diciamo che sono immortale.
Ma se tu non rinunci ai tuoi ricordi e ai sogni,
se non deponi la smania e non accetti l’orizzonte,
non uscirai da quel destino che conosci.
Odisseo. Si tratta sempre di accettare un orizzonte.
E ottenere che cosa?
Calipso. Ma posare la testa e tacere, Odisseo. Ti sei mai chiesto dove vanno i vecchi dei che il mondo ignora? Perché sprofondano nel tempo, come le pietre nella terra, loro che pure sono eterni. E chi son io, chi è Calipso?
Odisseo. Ti ho chiesto se sei felice.
Calipso. Non è questo, Odisseo
L’aria, anche l’aria di quest’isola deserta,
che adesso vibra solamente dei rimbombi del mare
e di stridi di uccelli, è troppo vuota. In questo vuoto non c’è nulla da rimpiangere, bada.
Ma non senti anche tu certi giorni un silenzio,
un arresto, che è come la traccia
di un’antica tensione e presenza scomparse?
Odisseo. Dunque anche tu parli agli scogli?
Calipso. E’ un silenzio, ti dico.
Una cosa remota e quasi morta.
Quello che è stato e non sarà mai più. Nel vecchio mondo degli dei quando un mio gesto era destino. Ebbi nomi paurosi, Odisseo. La terra e il mare ma obbedivano. Poi mi stancai; passò del tempo, non mi volli piú muovere. Qualcuna di noi resistè ai nuovi dei; lasciai che i nomi sprofondassero nel tempo; tutto mutò e rimase uguale; non valeva la pena di contendere ai nuovi il destino. Ormai sapevo il mio orizzonte e perché i vecchi non avevano conteso con noialtri.
Odisseo. Ma non eri immortale?
Calipso. E lo sono, Odisseo. Di morire non spero.
E non spero di vivere.
Accetto l’istante. Voi mortali vi attende qualcosa di simile,
la vecchiezza e il rimpianto.
Perché non vuoi posare il capo
con me, su quest’isola?
Odisseo. Lo farei, se credessi che sei rassegnata.
Ma anche tu che sei stata signora di tutte le cose,
hai bisogno di me, di un mortale,
per aiutarti a sopportare.
Calipso. E’ un reciproco bene, Odisseo.
Non c’è vero silenzio se non condiviso.
Odisseo. Non ti basta che sono con te quest’oggi?
Calipso. Non sei con me, Odisseo.
Tu non accetti l’orizzonte di quest’isola.
E non sfuggi al rimpianto.
Odisseo. Quel che rimpiango
è la parte viva di me stesso come di te il tuo silenzio. Che cosa è mutato per te da quel giorno
che terra e mare ti obbedivano ? Hai sentito ch’eri sola e che
eri stanca e scordato i tuoi nomi. Nulla ti è stato tolto.
Quello che sei l’hai voluto.
Calipso. Quello che sono è quasi nulla, caro.
Quasi mortale, quasi un’ombra come te.
E’ un lungo sonno cominciato chissà quando
e tu sei giunto in questo sonno come un sogno.
Temo l’alba, il risveglio; se tu vai via, è il risveglio.
Odisseo. Sei tu, la signora, che parli?
Calipso. Temo il risveglio, come tu temi la morte.
Ecco, prima ero morta, ora lo so.
Non restava di me su quest’isola
che la voce del mare e del vento.
Oh non era un patire. Dormivo.
Ma da quando sei giunto
hai portato un’altr’isola in te.
Odisseo. Da troppo tempo la cerco.
Tu non sai quel che sia avvistare una terra
e socchiudere gli occhi ogni volta per illudersi.
Io non posso accettare e tacere.
Calipso. Eppure, Odisseo,
voi uomini dite che ritrovare quel che si è perduto
è sempre un male. Il passato non torna.
Nulla regge all’andare del tempo.
Tu che hai visto l’Oceano, i mostri e l’Eliso,
potrai ancora riconoscere le case, le tue case?
Odisseo. Tu stessa hai detto che porto l’isola in me.
Calipso. Oh mutata, perduta, un silenzio.
L’eco di un mare tra scogli e un po’ di fumo.
Con te nessuno potrà condividerla.
Le case saranno come il viso di un vecchio.
Le tue parole avranno un senso altro dal loro.
Sarai più solo che nel mare.
Odisseo. Saprò almeno che devo fermarmi.
Calipso. Non vale la pena, Odisseo.
Chi non si ferma adesso, non si ferma mai più.
Quello che fai, lo farai sempre.
Devi rompere una volta il destino,
devi uscire di strada,
e lasciarti affondare nel tempo…
Odisseo. Non sono immortale.
Calipso. Lo sarai se mi ascolti.
Che cos’è la vita eterna
se non questo accettare l’istante che va?
L’ebbrezza, il piacere, la morte non hanno altro scopo. Cos’è stato finora il tuo errare inquieto?
Odisseo. Se lo sapessi avrei già smesso.
Ma tu dimentichi qualcosa.
Calipso. Dimmi.
Odisseo. Quello che cerco l’ho nel cuore, come te. |
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Exidor Miembro Decano

Registrado: 26 Nov 1999 Mensajes: 14920
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Publicado: Dom Oct 03, 2010 12:29 Asunto: |
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The night you slept
También la noche se te asemeja,
la noche remota que llora,
muda, en el corazón profundo,
y las estrellas pasan cansadas.
Una mejilla toca una mejilla-
es un estremecimiento frío, alguien
se debate y te implora, solo,
perdido en ti, en tu fiebre.
La noche sufre y anhela el alba,
pobre corazón sobresaltado.
¡Oh rostro tapado, oscura angustia,
fiebre que entristece las estrellas,
hay quien, como tú, espera el alba
escudriñando tu rostro en silencio!
Estás tendida bajo la noche
como un cerrado horizonte muerto.
Pobre corazón sobresaltado,
en un tiempo lejano eras el alba.
Cesare Pavese
Versión de Carles José i Solsora
La Mora
The night you slept
Anche la notte ti somiglia,
la notte remota che piange
muta, dentro il cuore profondo,
e le stelle passano stanche.
Una guancia tocca una guancia-
è un brivido freddo, qualcuno
si dibatte e t'implora, solo,
sperduto in te, nella tua febbre.
La notte soffre e anela l'alba,
povero cuore che sussulti.
O viso chiuso, buia angoscia,
febbre che rattristi le stelle,
c'è chi come te attende l'alba
scrutando il tuo viso in silenzio.
Sei distesa sotto la notte
come un chiuso orizzonte morto.
Povero cuore che sussulti,
un giorno lontano eri l'alba.
Cesare Pavese |
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Exidor Miembro Decano

Registrado: 26 Nov 1999 Mensajes: 14920
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Publicado: Sab Mar 05, 2011 11:03 Asunto: |
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Fin dal primo giorno avevo accennato per cortesia a scendere in acqua con lei, ma Clelia si era fermata guardandomi, con un sorriso ambiguo. “No, no,” aveva detto. Io, sorpreso, l'avevo guardata. “No, no, vado in acqua da sola.” Non c'era stato verso. Mi aveva spiegato che lei tutto faceva in pubblico, ma col mare se la vedeva da sola. “Ma è strano.” “È strano, ma è cosi.” Nuotava bene e non era per imbarazzo. Era una sua decisione. “La compagnia del mare
mi basta. Non voglio nessuno. Nella vita non ho niente di mio. Mi lasci almeno il mare.”
Cesare Pavese
La Spiaggia
Desde el primer día había hecho intención, por cortesía, de bajar al agua con ella, pero Clelia se había detenido mirándome, con una sonrisa ambigua. -No, no -había dicho. Yo, sorprendido, la había mirado-. No, no, me meto al agua sola-. No había habido forma. Me había explicado que ella todo lo hacía en público, pero que con el mar se veía a solas. -Pues es raro. -Es raro, pero es así-. Nadaba bien y no era por vergüenza. Era una decisión suya. -La compañía del mar me basta. No quiero a nadie. En la vida no tengo nada mío. Déjeme al menos el mar-.
Cesare Pavese
La Playa
Ultima edición por Exidor el Mie Sep 14, 2011 09:42, editado 1 vez |
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Exidor Miembro Decano

Registrado: 26 Nov 1999 Mensajes: 14920
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Publicado: Dom Abr 03, 2011 11:10 Asunto: |
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Eran éstas las cosas que llevaba conmigo en invierno a la ciudad; y no las decía, las encerraba orgulloso en mi corazón. Escuchaba a los compañeros hablar y pavonearse; yo callaba, no porque no me gustase oírles, sino más bien porque comprendía que las cosas realmente verdaderas no hay modo de contarlas. No sólo es menester que quien escucha las sepa, sino que hay que saberlas ya al conocerlas y, en suma, es imposible saberlas por otro. Yo mismo me preguntaba cuándo había empezado a saber, pero era como si me hubiesen preguntado cuándo había conocido a mi padre. La Sandiana un buen día se vino a vivir con nosotros, y sin embargo ni siquiera de ella recordaba que no estaba antes. En aquellos tiempos sólo sabía que nada empieza sino al día siguiente.
Cesare Pavese
Fiestas de Agosto |
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Clio Miembro Senior

Registrado: 15 Jul 2006 Mensajes: 5735 Ubicación: Ciudad Aut. de Bs. As., Argentina
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Publicado: Mar Abr 05, 2011 02:41 Asunto: |
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Exidor escribió: | Eran éstas las cosas que llevaba conmigo en invierno a la ciudad; y no las decía, las encerraba orgulloso en mi corazón. Escuchaba a los compañeros hablar y pavonearse; yo callaba, no porque no me gustase oírles, sino más bien porque comprendía que las cosas realmente verdaderas no hay modo de contarlas. No sólo es menester que quien escucha las sepa, sino que hay que saberlas ya al conocerlas y, en suma, es imposible saberlas por otro. Yo mismo me preguntaba cuándo había empezado a saber, pero era como si me hubiesen preguntado cuándo había conocido a mi padre. La Sandiana un buen día se vino a vivir con nosotros, y sin embargo ni siquiera de ella recordaba que no estaba antes. En aquellos tiempos sólo sabía que nada empieza sino al día siguiente.
Cesare Pavese
Fiestas de Agosto |
¡MARAVILLOSO!
Besos. |
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Exidor Miembro Decano

Registrado: 26 Nov 1999 Mensajes: 14920
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Publicado: Mie Sep 14, 2011 09:39 Asunto: |
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Eres joven; si yo pudiese estar en tu lugar...—. Me dijo entonces que no comprendía por qué la gente exaltaba tanto a los jóvenes: él habría querido tener ya treinta años —mejor que mejor—, eran estúpidos aquellos años intermedios.
—Pero todos los años son estúpidos. Es una vez pasados cuando se vuelven interesantes.
Cesare Pavese
La Playa |
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Exidor Miembro Decano

Registrado: 26 Nov 1999 Mensajes: 14920
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Publicado: Sab Sep 24, 2011 10:32 Asunto: |
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Pavese, un viajero sin destino
Por Salvador Biedma
Si uno ensayara una lista (aunque sea, mental) de escritores que se suicidaron, el nombre de Cesare Pavese surgiría bien pronto. Su muerte estuvo rodeada de hechos, indicios y consecuencias que la hicieron célebre y tiñeron –tiñen– la mayoría de las lecturas de su obra. Encontraron el cadáver el 27 de agosto de 1950. Había alquilado una habitación en un hotel de Turín y había tomado, según se dice, dieciséis frascos de somníferos. Repitió el destino de uno de sus personajes. Rosetta, en la novela Entre mujeres solas, también alquila una habitación en un hotel de Turín para suicidarse.
El diario del escritor se publicó poco después, en 1952. Lo había dejado prolijamente en una carpeta y había marcado, en una hoja, los años de comienzo y fin: 1935-1950. Su decisión, no cabe duda, fue largamente meditada.
Luego del suicidio y más aún tras la publicación del diario, aparecieron muchísimos estudios, de tipo muy diverso, sobre Pavese. Su obra lo permitía: a partir de algunas temáticas y estructuras que se repiten –sobre las que dejó también anotados sus pensamientos–, bulle un mundo lleno de símbolos, que invita a la interpretación y se relaciona de un modo peculiar con su vida.
Sin ser autobiográficos ni mucho menos, sus textos remiten a situaciones que vivió, que conoce de cerca, y siempre se pueden relacionar con algún aspecto de su experiencia. Además, en su diario llevó hasta el fin un registro descarnado, crudo y minucioso en el que se advierten los zigzagueos entre la exaltación y el juicio cruel sobre sí mismo. La literatura, está claro, fue una de las principales herramientas en el impiadoso proceso de autoanálisis que quiso desarrollar.
Parece lógico, entonces, que hayan abundado los trabajos críticos en torno a su figura y que la mayoría se concentren en la ceñida articulación de su vida, su obra y su pensamiento. Hay material de más para esos estudios y aun para los que quedan por hacerse. Proponemos, en este caso, centrar la atención en los viajes o, mejor, en los cambios de residencia.
El Viajero Inmóvil
Suele remarcarse que Pavese viajó poco y que nunca salió de Italia. Es cierto. Además, los viajes que hizo fueron, en su gran mayoría, obligados por diversas situaciones. Eso no quita que para él hayan tenido una importancia notable, que suele pasar inadvertida. Es más, su vida (también su obra, veremos más adelante) puede estructurarse según los cambios de residencia.
Pavese nació en Santo Stefano Belbo en 1908. A los seis años, tras la muerte del padre, se mudó a Turín. Durante un buen tiempo, volvía a su tierra natal cada verano y allí se sentía más a gusto que en la ciudad. Muchos personajes de sus textos viven la misma situación. “Marché a la ciudad y cambié de vida; regresé al año siguiente, me convertí en otro; venía al pueblo en vacaciones y así me pareció siempre que era un chico sólo en verano”, se lee en el cuento “Historia secreta”.
Recién durante la juventud va a descubrir el ambiente de la ciudad, que quedará asociado en su obra a las fatigas del trabajo diurno y los vagabundeos por la noche, la camaradería masculina, los paseos por el río Po, el coqueteo con las mujeres, el compromiso político y el desengaño adolescente o post adolescente, además de cierto aspecto de corrupción y vicio. Residía en Turín cuando el gobierno fascista lo arrestó por sus amistades, su trabajo en la revista Cultura y/o sus servicios como incauto mensajero. Tras una breve estadía en la cárcel, vino el confinamiento en la aldea marítima de Brancaleone, al sur de Italia. Su destierro en ese lugar fue penoso, pero la gran desilusión vendría después: cuando volvió y supo que su enamorada (la “mujer de la voz ronca” que aparece en sus textos) se había casado con otro hombre.
Ya la vida del escritor estaba centrada en Turín, aunque siempre volvía a Santo Stefano Belbo. Años después pasó un tiempo en Roma para encargarse de la sede de la editorial Einaudi y, durante los bombardeos de 1943, se refugió con su hermana en la colinas de Serralunga di Crea.
Cada punto de residencia del escritor puede buscarse en sus novelas. Si se hace este experimento, uno se topa con una rigurosidad increíble: todo está servido en bandeja; hasta parece engañoso por lo estructurado. Es una muestra más, entre tantas, pero muy significativa, de la ligazón entre la vida y la obra de Pavese. Y sirve para entender la importancia que tuvieron los viajes en su imaginario.
Mudanza
Desde el primer texto de su primer libro, publicado en 1936, los viajes atraviesan su obra. No los viajes en sí, no el hecho de moverse, trasladarse, ir de un lugar a otro, sino los cambios de residencia, las llegadas a un espacio distinto, con otras costumbres y otros paisajes. Aunque en todas sus novelas, salvo El hermoso verano, los protagonistas cambian de residencia, el hecho de viajar apenas tiene un desarrollo narrativo en De tu tierra y La casa en la colina. Y también en algunos cuentos, claro.
Los protagonistas de sus obras casi siempre están llegando a un lugar. Allí, encuentran otro horizonte, otros personajes y otros hábitos que resultan, a la vez, familiares, identificables, y desconocidos. Ese encuentro conduce la experiencia que se narra en casi todas sus novelas. Juan Villoro ha escrito que su maestro Monterroso no lograba recordar las historias de los textos de Pavese y que a él le ocurre lo mismo. Es que sus novelas no tienen una trama que se pueda seguir o retener. Narran la experiencia interior de los protagonistas en un sitio al que casi siempre han llegado luego de un viaje. La vida en ese lugar hace que se manifieste un pasado, que surja el diálogo entre el hombre que son estos personajes y el niño que fueron. Se trata de un diálogo esencial en la narrativa del autor.
El viaje que pone en escena Pavese está en las antípodas del viaje turístico, de su discurrir afiebrado y hambriento. La peor versión del turista pretende asegurar “yo estuve ahí”; los personajes del autor, en cambio, se topan de improviso con un “yo era y soy esto”. Llegan a un lugar y lo viven, lo respiran, dejan (en realidad, no parece haber otra opción) que los atraviese. De pronto, en el cambio de residencia, pueden recordar la tierra de su infancia al ver una colina o al identificarse con un niño a quien apenas conocen.
Así se da, a partir del encuentro con un lugar conocido y desconocido a la vez, el reencuentro con el pasado, el diálogo con uno mismo en un sentido profundo, lejos de las tendencias “new age”. Todo esto se asocia en forma directa con la mirada del escritor sobre otro tema fundamental de su obra: los espacios míticos.
Hay que olvidarse de la concepción usual del mito para entender el significado que él le otorga. Pavese dominaba muy bien la etnología –llegó a dirigir una colección sobre el tema en Einaudi– y tomó de ese ámbito sus ideas. Entendió el mito prácticamente como un sinónimo de “símbolo” y lo asoció a los lugares; en particular, los lugares de la niñez.
Influido por pensadores como Giambattista Vico, James Frazer o Carl Jung, relacionó la vida de los individuos con la historia de los pueblos y, entonces, buscaba el mito en la infancia de las personas, como en la infancia de los pueblos. Creía que, antes de tener una conciencia plena, racional, el niño experimenta los sucesos que van a configurar el mundo mítico de su adultez. Tales sucesos quedan asociados a un lugar que pasa a ser único.
Por eso, los acontecimientos toman otro valor en el sitio donde los personajes vivieron su infancia, un valor absoluto, que magnifica acciones que tal vez parezcan banales. En su obra, a partir de la llegada a un espacio de enorme significación (por medio del viaje), cualquier acontecimiento cobra trascendencia plena. De ese modo, se inicia una experiencia interior que, en la trama de un texto, puede parecer tan nimia que se olvida y, sin embargo, tiene una potencia implacable. Cuando Villoro cita lo que decía Monterroso, quedan señalados ambos sentidos: “Pavese es un gran escritor, muy intenso, pero no recuerdo sus historias”. De un lado, la dificultad para evocar las tramas; del otro, la potencia de sus obras.
La experiencia interior de los personajes, tan profunda, se vincula directamente con las ideas del autor sobre los espacios míticos. El encuentro con un lugar lleva al reencuentro con el pasado y eso explica la significación del viaje en la obra de Pavese. Incluso en la única novela donde el protagonista no cambia de residencia, hay un personaje esencial, Guido, que vuelve por unos días a la tierra de su niñez, aunque ese viaje no aparezca narrado.
Regreso a la Semilla
El mundo de los viajes es amplio. Hay viajes y viajes. En los textos de este autor, una figura se repite dentro de ese universo: la del retorno al hogar, a la tierra de la infancia. Sin duda, está ligada a su concepción sobre los espacios míticos.
Las diez novelas de Pavese (incluida la que escribió con Bianca Garufi) muestran un retorno al hogar en el plano simbólico y ocho además lo desarrollan en el plano realista. El personaje principal vuelve al sitio de su infancia o acompaña a otro en el regreso a su tierra. Parecería imposible, entonces, no ver la importancia que esto tiene en su obra.
Cuando trabajó sobre los mitos clásicos, en el libro Diálogos con Leucó, dedicó dos textos a Odiseo. Ese personaje está directamente asociado al retorno al hogar; es su figura prototípica. En uno de los diálogos, Circe le confiesa a Leucotea: “Después de todo es Odiseo’, pensé, ‘alguien que quiere volver a casa’”. Más adelante, lo define como “un hombre solo, en extremo inteligente, y valiente ante el destino”. Tal vez ahí esté la imagen del hombre que Pavese hubiera querido ser: tenía un llamativo amor por la soledad y la inteligencia; le faltaba la valentía o, mejor dicho, se acusó de cobarde una y otra vez.
Odiseo recorrió el mundo y debía regresar a su tierra. El primo del poema que abre Trabajar cansa viajó, vivió lejos de su pueblo y encontró todo nuevo al regresar. El narrador del cuento “Una certeza” también viajó y dice: “Con tanto que he hecho, visto y comprendido en el mundo, me ocurre pues que las cosas más mías son un montón de piedras donde me sentaba entonces, una reja de sótano donde clavaba los ojos, un cuarto cerrado donde no podía entrar”. No es que uno se descubra a sí mismo al encontrarse con el lugar de la infancia. El proceso tiene mucha más complejidad, guarda el misterio de lo simbólico. Los personajes llevan consigo la tierra donde nacieron (Pavese lo señaló de diferentes maneras en distintas obras, incluso se lo hace decir a Odiseo), pero vuelven a ella luego de haber pasado años lejos, encuentran todo indefectiblemente cambiado y viven una experiencia difícil de explicar o definir. La literatura del italiano se concentra, en buena medida, sobre la profundización de ese reencuentro.
Eterno Retorno
Parece significativo que alguien tan preocupado por estructurar su vida y su producción literaria haya iniciado y cerrado su obra con el tema de los viajes y, en particular, del retorno. El primer poema de su primer libro y la última de sus novelas muestran a personajes de 40 años –Pavese se suicidó a los 42– que han vuelto al Piamonte luego de hacerse a la mar.
No se trata en estos casos del mar que vio durante su confinamiento (que aparece en “Tierra de exilio” y en La cárcel, por ejemplo), sino de un mar desconocido, lleno de aventuras, misterioso. El que imaginó cuando era niño, el que encontró luego, de algún modo, en sus admirados escritores estadounidenses.
A principios de 1942, escribía en su diario: “El arte moderno es –en la medida en que vale– un regreso a la infancia”. El retorno al lugar de la niñez parece una conquista, una forma de conocimiento. Sin embargo, ya no tiene el valor definitivo que encerraba para un héroe mítico como Odiseo.
Se trata de una experiencia trascendental, pero luego la vida sigue y continúan la búsqueda, los viajes, el movimiento; la última novela de Pavese concluye, como muchas de sus obras, cuando el protagonista reinicia su camino.
Texto tomado de La Máquina del Tiempo |
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Exidor Miembro Decano

Registrado: 26 Nov 1999 Mensajes: 14920
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Publicado: Dom Feb 19, 2012 10:56 Asunto: |
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Sucede, pues, este hecho curioso: vivimos nuestro ser más auténtico cuando aún no sabemos admirar, es decir, captar lo que nos ocurre.
Cesare Pavese
Fiestas de Agosto |
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Exidor Miembro Decano

Registrado: 26 Nov 1999 Mensajes: 14920
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Publicado: Mar Mar 06, 2012 15:52 Asunto: |
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Alción Editora reedita en Argentina Vendrá la muerte y tendrá tus ojos y Trabajar cansa.
Operación Pavese
En 1957, Cesare Pavese fue publicado por primera vez en la Argentina, traducido por Rodolfo Alonso, para quien el italiano sigue impactando por un trabajo abrumador sobre el estilo.
POR Ezequiel Alemian
Cesare Pavese publicó en vida un único libro de poesía: Trabajar cansa. Hizo una primera edición en 1936 y una segunda, aumentada, en 1943. Se suicidó en 1950. Italo Calvino, que lo sucedió como editor en la casa Einaudi, publicó luego un segundo libro, con poemas que encontró entre los papeles que dejó Pavese: Vendrá la muerte y tendrá tus ojos, que salió en 1951. También a Calvino se debe el rescate de otros dos libros esenciales de Pavese: La literatura norteamericana y otros ensayos, y su diario: El oficio de vivir.
Edgard Bayley, que dirigía la colección de literatura de la editorial Nueva Visión, le encargó a Rodolfo Alonso, entonces el más joven de los integrantes de la revista Poesía Buenos Aires, armar una antología de ensayos de Pavese. Alonso le propuso hacerla con Hugo Gola, y Bayley aceptó. Alonso y Gola tradujeron La literatura norteamericana y dos ensayos que hay al final de Trabajar cansa: “El oficio del poeta” y “A propósito de ciertos poemas no escritos todavía”. El libro salió en 1957, y fue tal el impacto que produjo que inmediatamente tuvieron que hacerse varias reediciones.
Tres años después, Alonso publicaba, por Editorial Lautaro, su versión de Trabajar cansa y Vendrá la muerte y tendrá tus ojos, un verdadero acontecimiento, por lo que significó la literatura de Pavese para los lectores y escritores argentinos. La flamante reedición de este libro, por editorial Alción, sirve ahora para poner en perspectiva esos modos de leer y de concebir la poesía para Pavese y también para su traductor. Por eso hablamos con Alonso.
-¿Revisó las traducciones para esta nueva edición?
-No para esta edición. Seguí trabajando con Pavese durante muchos años. En 1961 yo estaba en plena vanguardia y no le prestaba atención al sonido de los versos, a su estructura prosódica, a los acentos. Son cosas de las que me fui dando cuenta con los años. Así que seguir trabajando con estos poemas lo sentí siempre como una obligación con Pavese y conmigo.
-¿Por qué fue tan leído?
-Había un contexto en los ambientes de izquierda que favorecía, si bien Pavese nunca había estado muy ligado a la política. El trabajaba en Einaudi, que era una editorial de izquierda, la del antifascismo, y ahora es de Berlusconi. El partido comunista italiano era el más grande de Europa y tenía una flexibilidad única, comparado con otros como el francés, muy estalinista. Existía una gran admiración por la literatura y la cultura italiana. Y también había una cuestión más conceptual. Pavese era un tipo muy culto. Decía que el poeta tenía que ser el más culto de sus contemporáneos.
-¿Hubo una influencia estilística de Pavese en la poesía argentina?
-Pavese era un escritor con una exigencia terrible y un trabajo de estilo abrumadores. Trabajar cansa es un libro hecho con un proyecto, con una estructura, que él llama “el cancionero”. Toda una arquitectura que tiene un sentido, en la cual los poemas se relacionan entre sí. Detrás de este proyecto estaba la idea de hacer una poesía narrativa. Lo narrativo no en tanto contar hechos, sino un poco como lo que hace Saer: una narración objeto. Por algo el libro de poemas de Saer se llama El arte de narrar.
-Pero los ensayos finales lo muestran incluso crítico con ese proyecto.
-Pavese era una persona muy crítica con él mismo y con los demás. Era muy difícil de tratar. Fue un solitario. Tenía el proyecto de hacer una poesía narrativa, con personajes incluso, pero al mismo tiempo, como les pasa a todos los grandes artistas, había cosas que se le escapaban. Valery dice del poema: “Esa prolongada oscilación entre el sonido y el sentido”. Pavese tiene poemas que son de un lirismo increíble, ya no narrativos. Y poemas de mitología. El mar del principio se va convirtiendo en un espacio mítico, y termina apareciendo Ulises.
-¿Se lo publicó en Poesía Buenos Aires?
-Uno de los Diálogos con Leuco, en el último número de la revista, que está dedicado a las musas. Pero la traducción de los poemas es un poco posterior. Ahora recuerdo que (Raúl Gustavo) Aguirre nunca ponía “traducción” en la revista. Siempre ponía “versión”. Versión parece hacer referencia a algo personal, diferente a la idea de traducción que había en esa época. En realidad siempre es “una” traducción, nunca es “la” traducción. Pero “versión” no volví a ver que se usara. A Macedonio Fernández hice publicar en Poesía Buenos Aires. Había encontrado un libro de poesías suyas editado por un paraguayo en México e hinché hasta que lo sacaron. Entonces Macedonio no estaba leído como poeta.
-Tal vez hoy resulta un poco difícil entender de qué se hablaba cuando se hablaba del humanismo de Pavese, ¿no?
-Probablemente ese humanismo sí se podría definir, pero no creo que sea posible transmitir con facilidad lo que encarnaba, que era una cantidad de valores por los cuales se murió inclusive. Tipos que arriesgaban la vida por escribir, por publicar, por pintar. Y las cuestiones políticas estaban directamente ligadas con eso. Dante Milano, un poeta casi desconocido, escribió que la finalidad de un gran poeta no es hacer una gran obra, sino hacer que la poesía continúe. Ese era un poco el espíritu de Poesía Buenos Aires. Y es la cita de Juan L. que Aguirre pone cuando hace la antología de la revista: “El canto viene de lejos/ de lejos y no se detiene nunca”. Hay mucho de presocrático en Juan L. Ortíz, como en Macedonio.
-En su libro de ensayos “No hay escritor inocente”, Macedonio y Juan L. aparecen tal vez como los dos poetas argentinos que usted más pondera.
-Sí. Porque son la poesía vivida a pleno, sin segunda intención. Ellos estaban en poesía. Hay cosas que me dijo Juan L. cuando lo conocí que no me olvido jamás. “El poeta, cuando habla de una cosa, es la cosa.” Yo lo repito, cambian las generaciones y no sé si se percibe lo que significa. En ambos hay mucho de la oralidad. Como dice Borges: “Qué morirá conmigo: una barra de azufre en un cajón de la cómoda en la casona del barrio sur, un charco de orina de una caballo blanco frente a una herrería, la voz de Macedonio Fernández”. Macedonio hablaba horas, Juan L. también.
-¿Es cierto que los integrantes de Poesía Buenos Aires no participaban de concursos ni escribían para suplementos?
-No se editaba con editoriales de prestigio, no se escribía en suplementos literarios, no se presentaba a premios literarios. Había normas éticas y estéticas que no estaban escritas, que se embebían con la práctica. ¡La beca Guggenheim! Con los yanquis no se podía hacer nada. Cuando llegué, me preguntaron si tenía poemas. Saqué un rollo, los leí, y me los empezaron a criticar. Era una cuestión de fraternidad y exigencia.
-Y esos imperativos éticos, ¿para qué?
-Hablamos peyorativamente de la literatura, como de una profesionalidad. Hacíamos otra cosa. Estaba en el aire una frase de Tzara: la poesía es una manera de vivir. Y de vuelta esa frase de Juan: el poeta es la cosa. Y las cosas no son gratuitas. Implican una serie de responsabilidades, de obligaciones. Lo ético y lo estético estaban unidos. Se podía ser poeta y otra cosa, pero no otra cosa y poeta. La poesía era una cosa seria.
Artículo original: http://www.revistaenie.clarin.com/literatura/Cesare-Pavese-Rodolfo-Alonso-trabajar-cansa_0_656934326.html |
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Exidor Miembro Decano

Registrado: 26 Nov 1999 Mensajes: 14920
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Publicado: Sab Dic 22, 2012 11:32 Asunto: |
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Rubén Ríos –¿Qué leías por entonces?
Ricardo Piglia –Muchísima literatura norteamericana. En esa época yo estaba aprendiendo inglés y leía traducciones, y también intentaba descifrar los textos en el idioma original. Y creo que entré en ella por Pavese, porque Pavese era muy experto en literatura norteamericana. Y llegué a Pavese por el diario que él llevaba, El oficio de vivir, porque como yo seguía escribiendo el diario me interesaba leer diarios. Pero lo leí todo a Pavese porque, en general, es lo que hago con los escritores: leo toda la obra. Y algunas observaciones de Pavese me marcaron mucho, en especial respecto de la importancia del tono. Por ejemplo, cómo el tono frío de Cain en El cartero llama dos veces había influido en El extranjero, de Camus. Una observación inteligentísima. También los cuentos de Hemingway me impactaron mucho, quiero decir, esa calidad que él tenía para contar de una manera muy limpia la historia. Creo que eso nos permitía a nosotros resistir un poco esa tendencia latinoamericana, que no llamaría barroca, porque es un elogio, sino esa retórica cargada.
Fragmento del reportaje a Ricardo Piglia en revista Acción
http://www.acciondigital.com.ar/01-12-12/entrevistas.html#dos |
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